Nell’avventurosa vita di un motociclista si susseguono chilometro dopo chilometro diversi tipi di strada. C’è quella che ti accompagna nel viaggio della vita, lontano da casa lungo un viaggio ricco di episodi da raccontare agli amici davanti a qualche pinta di birra. C’è quella veloce della pista che ti spinge a cercare il limite della tua moto ed i limiti della tua esperienza di guida. Poi c’è quella che affronti facendo parte di un plotone di centauri, e quella che percorri in pigra solitudine perchè vuoi assaporare il borbottio del motore e godere degli scorci paesaggistici che ti circondano. Ma c’è anche la strada breve che ti conduce nella città dietro casa in cui puoi trovare i tesori che l’Uomo ha costruito nei tanti secoli della sua permanenza su questo pianeta.

La gita di domenica 20 febbraio è stata appunto una di queste: abbiamo raggiunto il pavese, che anche se non propriamente dietro l’angolo è comunque un territorio a “portata di domenica”. La meta è stata la località Torre del Mangano, alle porte del capoluogo; una zona attorniata da paesi che si snodano forse anonimi lungo la Vigevanese, ma che cela al suo interno una maestosa cattedrale ultracentenaria che racchiude in sè enormi tesori artistici, e la storia di due famiglie il cui nome resiste all’incedere dei secoli: gli Sforza ed i Visconti. La Certosa di Pavia, che deve il suo nome alle origini francesi dei monaci che la costruirono, originari di Massif de la Chartreuse, in Francia e appartenenti all’ordine fondato da San Bruno, fu costruita infatti per volere di Gian Galeazzo Visconti, Duca di Milano, che nel 1396 pose la prima pietra di quello che voleva essere l’ex-voto per aver ricevuto in grazia dalla Vergine una discendenza di tre figli maschi, avuti dalla moglie Caterina da Siena (la cattedrale infatti è dedicata a Santa Maria delle Grazie). Quando poi Francesco Sforza successe ai Visconti si fece carico dei finanziamenti per il proseguimento della costruzione. Altri nomi che riecheggiano tra le sculture e le magnifiche opere custodite sono quelli di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este.

Riassumere in poche righe la storia e la ricchezza artistica della Certosa di Pavia è cosa impensabile. Infatti, grazie ad uno dei monaci che ancora abitano il monastero (ora Cistercensi) si possono percorrere quei luoghi sotto la puntuale ed esauriente guida di una persona che oltre ad aver studiato la storia di questa costruzione la vive quotidianamente. Chissà se il nostro cicerone ha avuto un attimo di smarrimento nel vedere, mischiati ad un gruppone di turisti toscani, anche una ventina di persone vestite con abiti strani e ricoperte dalle tute anti-pioggia ancora grondanti.

Già, perchè la gita è iniziata alle 8.00 di una domenica mattina in cui tutto ti aspetti, tranne che trovare sedici moto e venti persone pronte a partire: è presto, è ancora inverno, ci sono quattro gradi centigradi come dentro il frigorifero di casa, ed è certo che pioverà; anzi, qualche moto è già punteggiata dalle gocce d’acqua raccolte durante il trasferimento box-bar. Roba da farti pensare che se troverai quattro o cinque soci è già un successo. Invece no: tutti quegli amici ti lasciano piacevolmente stupito, e capisci già che la giornata sarà comunque bella. Dopo il caffè, quando il Presidente ha fatto l’appello e tutti hanno risposto “Presente!”, si parte e ci si infila nella Statale 336. Passi l’aeroporto di Malpensa e lasci scorrere i paesi che costeggiano il Ticino a cavallo tra Lombardia e Piemonte, fino ad arrivare a Magenta. Lì abbandoni la strada a due carreggiate e ti immetti sulla Vigevanese che conduce, appunto, a Vigevano e Pavia.

La tappa al primo benzinaio è necessaria non per problemi di autonomia, ma perchè la pioggerellina che ci siamo lasciati alle spalle è diventata vera pioggia, per cui urge infilarsi la tuta anti-acqua. La coreografia creata da venti motociclisti che tentano di vestire sè stessi e gli altri, sfidando le leggi della gravità, saltellando in precario equilibrio su un piede, cercando un modo per riuscire a far salire i calzoni oltre lo stivale, è davvero ridanciana: sembriamo tutti improbabili ballerini alla Corrida televisiva. Alla fine si giunge compatti alla meta dopo aver abbandonato la strada principale e aver svoltato a sinistra in una strada diritta, delimitata da filari di alberi, dove all’orizzonte risalta l’ingresso esterno al monastero: la Certosa vera e propria è nascosta dal pontile e dalla cinta, e quando valichi il portone gli occhi si incantano nell’ammirazione della imponente facciata in marmo di Carrara. Prima però bisogna parcheggiare le moto: se sopra la testa piove, e piove, e piove ancora, sotto le gomme c’è una bella distesa di fango e pozzanghere da schivare, prima di poter tirar giù il cavalletto e scendere dalla sella. Poi si entra nella cattedrale, si inizia a girovagare lasciandosi guidare dalla curiosità, scattando qualche foto anche se decine di cartelli ammoniscono che non è permesso farle, fino ad essere accolti dal monaco cistercense che abbiamo già conosciuto qualche riga qui sopra.

Dopo un’ora trascorsa come studenti a lezione, in cui abbiamo seguito attentamente la storia e la descrizione delle sculture e dei dipinti, si lascia il luogo sacro e si torna nella profana vita dei motociclisti. Qui le regole sono un po’ diverse da quelle dei sacerdoti…

Tentiamo di uscire dal parcheggio improvvisandoci tutti enduristi per guadare le pozze d’acqua e superare gli insidiosi accumuli di fango. Raggiunta Bereguardo quando è ormai ora di pranzo, ci rintaniamo in una trattoria dove divoriamo avidamente enormi bistecche, precedute dagli affettati e seguite dai formaggi, ovviamente favorendo la deglutizione con del Bonarda o del Barbera (per i più salutisti, con una o due birre). Il silenzio monacale viene scacciato dalle voci che salgono dalle sedie: c’è chi parla della nuova diavoleria a due ruote, chi di vacanze, chi di donne, chi di cosa fanno gli uomini e le donne… Insomma, l’aria mistica che abbiamo respirato poco prima appartiene già ai ricordi.

Rimane ancora una cosa da fare: raggiungere Vigevano per bere un ultimo caffè in compagnia, davanti ad una delle più belle piazze d’Italia. Decidiamo di superare il fiume Ticino sul suggestivo ponte di chiatte di Bereguardo: un ponte galleggiante, a listoni di legno uniti con giunture d’acciaio, che si adegua al livello dell’acqua grazie alle barche su cui è adagiato. Nelle giornate estive il colpo d’occhio è davvero notevole: sembra di attraversare il fiume con le gomme in acqua. Purtroppo siamo in pieno inverno, e piove: l’acqua ha reso viscidi sia il legno che le giunture d’acciaio, e anche se ci si muove lenti come tartarughe centenarie, la scivolata è in agguato. E infatti un amico si stende insieme alla moglie, prendendosi una bella botta alla caviglia. Dopo qualche attimo di panico realizziamo che la situazione non è grave, anche se il dolore ha reso tutto molto più preoccupante. Ma Giuseppe è un guerriero, e decide di stringere i denti senza affidarsi alle cure dei medici, e ripartire.

Andare a Vigevano ci sembra inopportuno: consultato il Presidente, decidiamo con Cesare di scortare tutti insieme il nostro amico infortunato lungo il viaggio di ritorno. Il caffè del saluto lo prendiamo comunque in compagnia, ad esclusione di coloro che hanno già lasciato il gruppone strada facendo per imboccare la direttrice che li riportava alla propria abitazione. Poco dopo le cinque del pomeriggio siamo quindi nel punto esatto in cui eravamo alle otto della mattina: dentro la gelateria Peccati di Gola di Somma Lombardo, davanti ad una tazzina di caffè bollente.

Fuori c’è la stessa (poca) luce del mattino, la stessa temperatura, la stessa umidità. Dentro però ti senti un po’ più grande: una giornata invernale, piovosa, ha comunque saputo accrescerti culturalmente. Ed anche il cuore sembra un po’ più grande: è sempre così, quando sperimenti l’essenza della parola amicizia. Saper dire di no ad un desiderio, per dire di si ad un amico e stargli vicino nei momenti di difficoltà.

 

Qui le immagini della gita.