Succede. Riprendi in mano le foto di qualche anno fa, e mentre le immagini scorrono sotto ai tuoi occhi riportando in vita i colori, gli odori, le sensazioni vissute sulla cima di quella montagna o le risate di gruppo davanti ad una birra, un dettaglio piano piano si fa largo tra i ricordi. Sei tu, con i capelli che foto dopo foto si sono popolati di fili bianchi, o che magari sono caduti uno ad uno. Tu con una ruga in più disegnata intorno agli occhi, o con il ventre che da piatto è diventato un po’ tondo, o forse enorme. Sei quello che qualche anno prima aveva un sorriso splendente anche dopo aver trascorso due notti insonni, mentre nelle ultime foto hai lo sguardo velato dalla cataratta della fatica dopo quel bicchierino in più.

Insomma, realizzi che stai crescendo, che stai invecchiando così come tutti quei volti, ognuno con il proprio nome ma che hai imparato a chiamare amici. Eppure sei, siete, ancora tutti insieme. C’è qualcosa dentro che vi spinge a non prendere la vita come fosse solo una successione di anni, di numeri, ma come qualcosa di cui gioire, da sfruttare, da far fruttare. Qualcosa che non può essere solo recitare ogni giorno il ruolo che per scelta o per imposizione ci troviamo a mettere in scena quotidianamente. Sei un affermato professionista, magari un medico, un artigiano, un operaio, un pensionato. Il lavoro ti dà la possibilità di esprimere le tue capacità, di fare la spesa, di curarti quando stai male. La tua famiglia ti sostiene, è il tuo faro che dà la direzione da seguire. Ma c’è di più: nascosto tra le ragnatele c’è quel bimbo paffutello che sognava di volare tenendo in mano il modellino di un aeroplano, di attraversare il mondo sognandolo davanti ad un francobollo. Un bimbo pieno di energia, che non conosceva la stanchezza perché, quando il vigore dell’infanzia finiva, crollava nel letto senza nemmeno avere il tempo di rimboccarsi le coperte o di spegnere la luce. Ecco, forse proprio questo è uno dei tanti sensi della vita: crescere si, ma con la capacità di aprire ogni tanto una parentesi in cui quel bambino possa tornare a vivere; e lasciarsi stupire, divertire, mettersi a nudo senza provare vergogna, giocare con tutto e tutti tranne che con la vita stessa.

E’ un po’ quello che è successo lo scorso weekend, tra sabato 21 e domenica 22 luglio, quando molti di noi del Golasecca hanno piantato le tende a Beura per partecipare al diciannovesimo Guzzi Friends. Siamo arrivati al raduno con l’abito del motociclista adulto; ognuno di noi ha salutato gli amici che da un po’ non incontrava; abbiamo montato le tende sotto al sole asfissiante muovendo vorticosamente braccia e mani per erigerle nel più breve tempo possibile, così da prendere parte al giro turistico verso la Valle Antrona. E siamo arrivati a sera sudati, forse anche un pochino stanchi. Esattamente come capita ogni giorno quando finisci di lavorare.

Poi però arriva inaspettata la magia. La moto è ferma sul suo cavalletto, e dalle marmitte e dal motore si levano i miraggi creati dall’aria rovente. Le dai le spalle e percorri quei duecento metri che separano la zona camping da quella della festa, con passo lento, guardandoti attorno senza soffermarti su nulla in particolare. Finché ti si para davanti il tendone. Lo osservi, noti le strisce colorate che lo attraversano. Sotto di esso si muovono i personaggi più disparati, diversi, inverosimili. La musica che giunge attutita alle tende qui ti investe. Attorno si muovono le moto. E tu non sei più lo smanettone incallito, non hai più dolori articolari, ti è scomparso il broncio accigliato: sei un bambino che per la prima volta entra nel tendone del circo e si lascia rapire dallo spettacolo.

Qui i cavalli non hanno quattro zampe, ma due ruote. I domatori non agitano nessuna frusta, ma indossano caschi e capi in pelle. Non c’è la donna cannone, qui ci sono donne aggraziate, alcune avvenenti, qualcuna che incute timore. Non ci sono facce con cerone e cipria, ma braccia e corpi tatuati. Niente popcorn e Coca Cola, ma carne grigliata e birra gelida. E’ tutto diverso da quel mondo che hai conosciuto da moccioso, eppure ha la stessa magia. Non c’è quindi da stupirsi se ti ritrovi a ballare il rock’n’roll anche se da anni continui a dire che non sei capace di ballare. Non c’è nulla di male né di malizioso nel fare una foto vicino all’ingresso con i pantaloni abbassati, solo perché l’ha appena fatto un tuo amico che voleva renderti partecipe del disegno stampato sulle sue mutande, e perché lo faranno anche gli altri mentre i passanti guardano divertiti. Nessuno nota che hai sessant’anni, o cinquanta, perché in quel momento hai solo lo sguardo di un ragazzino che sa di averla fatta grossa e di rischiare un castigo quando lo saprà la mamma.

E così anche i più riservati si trovano a fare festa, a divertirsi, magari a bere un altro bicchiere di vino per brindare alla vita. Poi c’è l’introverso che scompare per qualche momento e si sdraia sulla moto, incrociando i piedi sul manubrio e appoggiandosi sul bauletto, che mentre mangia mezza filzetta di salame bevendo birra si lascia rapire dal cielo stellato, scuro, immenso sopra la sua testa, e sogna di volare su una astronave come nelle fantasie di tanti anni fa. Ma senza provare nostalgia o tristezza, perché in quei frangenti è di nuovo piccino e si dimentica che la vita scorre.

Tra una mangiata, una bevuta, tra un ballo infinito e uno spogliarello, seduto su una panchina per poi trovarti in un baleno steso per terra insieme ad altre venti persone, trascorrono le ore. Niente stanchezza, niente sonno. L’energia non ti abbandona e sei quasi sicuro che la festa non finirà più, che quegli attimi sono invece una vita intera. E così ti ritrovi alle 4.30 del mattino a parlare con una sconosciuta, mentre i gruppi hanno suonato la loro musica, cantato le loro canzoni, e la gran parte delle persone sta riposando nella propria tenda o ha già fatto ritorno a casa. Allora decidi anche tu di provare a dormire, sperando che il sorgere del sole non sciolga l’incanto.

Ma il sole arriva subito, scalda la tenda e ti costringe ad abbandonarla dopo un paio d’ore di sonno finto. E quando sgusci fuori senza aver capito bene dove siano i piedi e le mani, vedi un brulicare di gente che smonta teli e sgonfia materassi. Le moto impolverate dal vento teso borbottano di già per scaldare il loro motore. E sotto al tendone ci sono solo poche persone assonnate, quelle che di dormire proprio non ne volevano sapere. Fai una fugace colazione sulle panche che qualche ora prima erano occupate da centinaia di individui, e che ora sono deserte, e uscendo dal tendone a strisce ti rendi conto che lo spettacolo è finito. Il circo smonta: deve spostarsi da un’altra parte per ammaliare altri bambini. Fai ritorno alla tenda per smontarla anche tu, sperando che il clown ti chiami e faccia un ultimo numero per farti ridere ancora.

Ovviamente non è così, e dopo poca strada ti ritrovi immerso in un nuovo scenario, lontano anni luce da quello della notte caotica. Ci siamo spostati a Uriezzo per percorrere gli Orridi che si insinuano tra terra e montagna, ricchi di muschio, umidi, abitati dall’eco delle voci di chi li attraversa. Certo le danze della notte prima hanno tagliato un po’ le gambe, ma l’aria fresca che riempie queste fessure restituisce un po’ di tono ai muscoli appesantiti, e pervade i polmoni permettendoti di affrontare la strada in salita.

Tutto questo movimento mette appetito: senza perdere troppo tempo a chiederci dove pranzare, decidiamo di accomodarci nel ristorantino notato tre o quattrocento metri prima di parcheggiare le motociclette. Restiamo sorpresi: non si tratta di una banale pizzeria, ma di un locale che fa parte di un maneggio. Mangiamo circondati dai cavalli, ma anche da un simpatico asino che subito viene battezzato Lucignolo. Nonostante gli occhi inizino a fessurarsi, al pranzo non proprio da gambero rosso, e incuranti della canicola che infiamma l’aria valligiana, una decina di soci si lancia in una partita di beach volley. Dello sport tanto in voga nelle spiagge ovviamente ha solo il nome: meglio girarsi dall’altra parte e non guardare la partita dove il punteggio avanza solo grazie agli errori commessi.

Arriva poi l’ora di ripercorrere la strada fatta in senso inverso il giorno prima. La statale del Sempione scende lenta e oziosa verso il Lago Maggiore. Questa volta non c’e più la pioggerella che ti aveva accompagnato all’andata, tra Stresa e Verbania: il sole picchietta sul casco come un picchio dispettoso, mentre le labbra bruciano per via delle screpolature regalate dal vento e accentuate dalla poca acqua bevuta. Eppure, proprio mentre lungo l’autostrada il frullare del motore diventa una nenia e tira fuori tutta la stanchezza accumulata, che smaltirai non prima di due giorni, hai ancora la lucidità di pensare alla strada in un modo diverso, sotto una prospettiva che finora avevi ignorato. Se tutto quello che nelle prime righe hai raccontato a chi ti legge è vero, se ci sono occasioni in cui l’età è solo scritta sui documenti e non nello spirito, se sei riuscito a vivere con lo stupore di un ragazzino che per la prima volta sogna sotto al tendone di un circo, è anche grazie a quei chilometri che ti hanno portato fin nel mondo dei balocchi. E una curva a destra, ed una a sinistra, diventano le due parentesi dentro a cui quel bimbo paffutello sogna ancora di volare tenendo in mano il modellino di un aeroplano.

 

Qui le immagini del raduno.