L’aria fresca del mattino soffia leggera e piano piano toglie dal viso l’espressione assonnata. Guardando un po’ l’orizzonte e un po’ i fenicotteri rosa raggruppati sul piccolo isolotto posto a sud, anche gli occhi si liberano da quel velo che gli eccessi della notte precedente hanno posato con le loro mani invisibili. Sopra le teste volteggiano decine di uccelli che solo l’occhio esperto sa riconoscere: l’airone bianco, la sgarza, il mignattaio, un falco di palude e più in basso il cavaliere d’Italia con le sue lunghe zampe lasciate libere di penzolare.

I nomi di queste e di tante altre specie interrompono la narrazione che la nostra guida espone con sicurezza e fluidità: la passione con cui illustra i luoghi che lentamente scorrono alle nostre spalle, gli aneddoti che ci fanno conoscere la vita di persone ormai appartenenti al passato, riescono a catturare l’attenzione anche di chi ha ancora un piede nel mondo dei sogni.

Sono le 9.30 della domenica, e solitamente a quest’ora si marcia compatti sulle nostre moto. Questa volta invece non corriamo sull’asfalto, ma avanziamo lenti a bordo di un’imbarcazione che si muove pigra lungo i canali della laguna, attraversando il Parco del Delta del Po. Acqua sotto di noi, e acqua anche nell’aria: l’umidità è molto elevata, ma fortunatamente questo angolo di mondo è ricoperto da una fitta coltre di nuvole scure che perlomeno proteggono dal sole e tengono lontano un caldo che sarebbe altrimenti tropicale. Eppure qualche punto di contatto con le nostre abitudini motociclistiche c’è: il rumore del motore che frulla, le decine di magliette arancioni del Moto Club Golasecca che spiccano nel grigiore, i milioni di zanzare e insetti che ci circondano, parenti di quelli che solitamente si lanciano come kamikaze contro i nostri caschi. L’intreccio dei canali che da Comacchio portano al delta del fiume Po e di qui al Mare Adriatico non ha curve da pennellare, è piatto e senza saliscendi, ma percorrendolo su un battello regala le emozioni che la natura sa dispensare a chi si ferma ad ascoltarla, ad osservarla. L’idea che ci sia un motore a combustione in un certo senso infastidisce: ci si sente un po’ in colpa perché questi luoghi sono tanto genuini quanto delicato e fragile è il loro equilibrio.

In questo ambiente piatto e immobile spiccano i casoni, costruzioni che hanno iniziato a popolare questi luoghi ai tempi delle repubbliche marinare: inizialmente costruiti con pali rivestiti di materiale vegetale e chiusi superiormente da fasci di canna palustre legati con fibra di giunco, a partire dal 1.600 furono eretti in muratura e sono oggi ottimamente conservati. Il loro è un rosso reso cupo dal cielo plumbeo che si riflette nell’acqua, e fa da contrappunto al verde della vegetazione che li circonda e che, in effetti, è l’unica vera nota di colore del paesaggio. I casoni sono luoghi di pesca. Qui viveva chi della pesca dell’anguilla faceva la propria attività, dando anche lavoro ai confinanti: gli edifici ospitavano infatti i pescatori, le loro famiglie e le attrezzature necessarie. Alcuni sono veri e propri magazzini, detti tabarre o cavane, in cui erano rinchiuse le marotte, le tipiche imbarcazioni piatte, chiuse superiormente da una botola e intagliate lungo lo scafo, in cui veniva riposto il pescato così da trasportarlo per giorni e per chilometri, garantendo l’acqua necessaria a conservarlo vivo. Accanto a queste vi sono le reti e i tanti attrezzi utilizzati vuoi per preparare la salamoia, vuoi per essiccare il pesce, ma anche per costruire e riparare le imbarcazioni.

Giulia, la nostra guida, porta la nostra attenzione su una barca stretta e lunga, spartana, capace di ospitare tre o quattro persone rigorosamente in piedi. E’ quella che i pescatori di frodo (chiamati fiocinini poiché si servivano delle fiocine per inforcare tre o quattro pesci in un solo affondo) utilizzavano per le loro incursioni notturne lungo i canali. Non volgari ladri, ma bensì poveracci che dopo il periodo della pesca non avevano altre fonti di sostentamento, e rischiavano il carcere per catturare qualche anguilla. Uomini tra loro solidali: nel caso fossero scoperti dai vallanti (i guardiani delle valli), tre dei quattro a bordo si davano alla fuga, e uno si sacrificava finendo in galera, avendo però la certezza che alla sua famiglia avrebbero provveduto i tre fuggitivi. Queste barche particolari erano costruite per rispondere a diverse esigenze: dovevano muoversi rapide, essere leggere così da poter essere sollevate agevolmente per scollinare gli argini dei canali nel caso di avvistamento. E dovevano essere invisibili: generalmente venivano ricoperte di pece, e i fiocinini si imbardavano in un mantello altrettanto nero così da non essere facilmente scoperti, aiutati dalla nebbia dei canali e dall’oscurità di un cielo senza luna.

Così, tra una traversata e una camminata, la lancetta dei minuti fa due volte il giro del quadrante, e poco prima di mezzogiorno sbarchiamo nel punto in cui siamo salpati. Dal battello scendono ventiquattro personaggi che hanno lasciato alle loro spalle lo stato catatonico, ritrovando le energie e l’allegria che sempre accompagna le trasferte del nostro gruppo. Congediamo la nostra guida e torniamo alle moto. L’idea è quella di tornare a Comacchio per pranzare, ma essere così vicini al mare, averlo visto poco prima all’orizzonte e scorgere il sole che cerca di farsi largo in cielo è una tentazione irresistibile: cambiamo idea e puntiamo verso i lidi.

In pochi minuti giungiamo sul lungomare del Lido di Comacchio e iniziamo a vagabondare alla ricerca del posto dove consumare il pranzo. Camminando non si può fare a meno di notare che manca qualcosa: ci sono pochissime persone, e i negozi sono chiusi. C’è un che di desolato che fa a pugni con l’immagine chiassosa e festaiola tipica delle località di mare: è il segno che l’estate è davvero finita, e anche se ormai hai ripreso a lavorare da più di un mese, questa rivelazione versa un po’ di tristezza nell’anima. Il colpo del ko lo ricevi però quando ti avventuri in spiaggia: le decine di metri che ti separano dal mare sono deserte, vuote, senza sdraio o lettini, senza persone né colori. La sabbia non è più rovente, e l’acqua si è già raffreddata. Il litorale sembra espandersi all’infinito senza nulla intorno che ostacoli la vista. Verso il porto, le reti dei trabocchi sono sospese, immobili, come ragnatele su una baracca abbandonata. Gli ombrelloni sono tutti chiusi e resteranno così per molto tempo. Cercando un appiglio per non farti travolgere dalla nostalgia immagini che imbrigliati dentro quegli ombrelloni ci siano ancora le grida dei bambini, le voci delle loro mamme che li richiamano prima di scattare una foto, il bacio di una coppia di innamorati, il russare sommesso di qualcuno che ha vissuto la notte fino all’alba. Suoni e colori che, come per magia, si libereranno il prossimo anno quando le tele colorate si riapriranno, ancora una volta, come fiori a primavera. Per fortuna ci sono i tuoi amici, i compagni di viaggio, che tengono lontani i pensieri malinconici con le loro risate, i racconti, con quel prendersi in giro bonario che a turno colpisce tutti. Sei al mare, stai mangiando in compagnia, il sole è diventato padrone del cielo e c’è anche il tempo per un bagno fuori stagione: questa è fortuna, è un privilegio poter vivere questi momenti.

Già, il giorno prima. Perché prima della laguna e dei casoni, prima del mare, prima del risveglio annebbiato e della colazione massiccia c’è dell’altro. Siamo partiti da Somma Lombardo alle 14.00 del sabato, giorno 22 di settembre, in una giornata al limite tra fresco e freddo, con un sole che non aveva tanta voglia di fare il suo lavoro. Sette moto che si sono moltiplicate lungo il viaggio che ci ha portati là dove l’acqua dolce del Po sfuma nel mare salato. Come quel trenino giocattolo in cui i vagoni sono tenuti insieme dalle calamite, la carovana si è allungata via via, attirando a sé le altre moto di ferro e plastica che ci aspettavano a Busto Arsizio, all’autogrill Villoresi verso Linate, ed in tangenziale ovest all’altezza di Assago. Diciotto persone hanno quindi affrontato i trecentosessanta chilometri, di cui oltre trecento di autostrada, che servono per giungere a Comacchio. Il viaggio si è svolto senza intoppi, con la solita anestesia da rettilineo che trasforma i centotrenta all’ora nell’andatura di una testuggine. Il contagiri è fisso sui quattromila e ce ne sarebbero ancora così tanti da spararti a velocità da ritiro perenne della patente. Guardi davanti e negli specchietti retrovisori e di traffico nemmeno l’ombra. Poi guardi a sinistra e scorgi il Frecciarossa che corre a muso basso a trecento allora lungo il suo binario. Pensi di ingaggiare una gara fuorilegge con quel mastodonte d’acciaio. Poi alzi gli occhi e vedi il Tutor che ti legge nei pensieri e legge anche la tua targa. Addio sogni proibiti.

Borbottando, pensando a tutto e a niente, cercando di sgranchirti mentre la moto macina i chilometri senza nessun sussulto, ti ritrovi finalmente a parcheggiare e a smontare bauletto e bagagli. A Comacchio ci aspettano altri sei soci che sono partiti in solitaria già al mattino per una visita a Ferrara: ora siamo in ventiquattro. Lasciata la strada principale si entra nel cuore della città dove le vie sono sostituite dai canali, su cui si affacciano ristoranti, alberghi e negozi d’artigianato locale. Si respira l’aria della Serenissima, la repubblica marinara di Venezia. Certo gli edifici sono architettonicamente diversi, più moderni di quel gioiello che tutto il mondo ci invidia, ma anche qui la poesia riempie i viottoli e cammina sui ponticelli che attraversano gli stretti specchi d’acqua. Arriviamo nella piazza centrale caratterizzata da un crocevia di pontili proprio mentre c’è festa: sul palco l’intrattenitore cerca di coinvolgere le persone accorse per partecipare alla festa organizzata in favore dei terremotati dell’Emilia. A Reggio Emilia stasera ci sarà il concerto Radio loves Emilia a cui parteciperanno alcuni tra i più grandi interpreti della musica italiana, per la gioia degli spettatori che avranno superato indenni i dieci chilometri di coda che intasavano l’autostrada all’altezza di Modena Sud; ma praticamente in ogni dove è stata organizzata una manifestazione di solidarietà.

Una ventina di motociclisti che ridiscende la scalinata che accede alla piazza, con in i bauletti, il casco sottobraccio, e vestiti con giacche e stivali di pelle non passa certo inosservata, e difatti il presentatore tenta di fermarci: da dove venite, come mai da questa parti, mi raccomando fermatevi qui che tra poco apre la cucina, c’è festa e si balla, ci sono spettacoli da vedere. Rispondiamo timidamente perché non ci aspettavamo una simile accoglienza, e continuiamo lungo la strada che ci porta all’albergo. Un hotel tre stelle che ben presto verrà scosso dall’allegria di ventiquattro amici festosi.

Giusto il tempo di occupare le camere, farsi una doccia calda e vestire abiti civili, ovviamente con tanto di maglietta d’ordinanza del Moto Club Golasecca, e subito ci riversiamo in ordine sparso per le strade che costeggiano i canali, mossi dalla voglia di conoscere Comacchio e di fare tre o quattro giri d’aperitivo prima di cenare. Alle 20.30 mettiamo le gambe sotto i tavoli: nella sala del ristorante oltre a noi ci sono poche persone, qualche coppia e un gruppo di signori distinti, silenziosi, anche loro a tre stelle come l’hotel. Ma l’aria immobile viene spazzata via dopo meno di due minuti, quando iniziamo a brindare, cantare, ridere e fare quella cosa che ci viene tanto bene: fare festa. Clienti e cameriere accusano inizialmente il colpo: forse non sono abituati a sentire tanto fragore tra le mura. Ma ben presto gli altri avventori sorridono e ci guardano divertiti, mentre le cameriere passano a darci del tu e a partecipano ai nostri scherzi. Antipasti a base di pesce, risotto con pesce bianco, pesce alla griglia, tra cui la specialità di questi luoghi: l’anguilla. Come sempre, forchette e bicchieri non sono mai vuoti nelle nostre mani. Alla fine della cena, tra il caffè e il grappino, il clima festoso diventa una festa quando si scopre che due nostri soci, Walter e Teresa, festeggiano trentasei anni di matrimonio: gli auguri e gli applausi diventano la scusa per arruffianarsi i due, tentando di convincerli a offrire una bottiglia di grappa.

Per la gioia delle orecchie dei gestori abbandoniamo il ristorante e torniamo all’aria aperta quando sono già le 22.00. La serata è tiepida, quasi calda, e brancoliamo lungo i canali in mezzamanica. Ormai i tappi sono saltati e qualsiasi cosa va bene per folleggiare: chi si issa su una imbarcazione rischiando di finire in acqua, chi canta senza troppa intonazione le canzoni di Battisti, chi parla a voce alta, chi sale su un carretto del gelato mimando un piegone che con la moto non gli riesce neanche a metà. In poco tempo raggiungiamo tutti la piazza centrale richiamati da una musica mediorientale: sul palco una quindicina di ragazze ballano la danza del ventre, e i maschietti del Moto Club si fermano, immobili come in una fotografia. Il gruppo di ballerine viene sostituito da altre con abiti tirolesi, e la musica cambia di conseguenza. Poi è il turno delle maschere veneziane, dei ballerini spagnoli, delle coreografie che portano sul palco Napoli, la Sicilia. E’ una lunga carrellata di sonorità diverse, di costumi e balli rubati ai più diversi paesi del mondo, freschi come l’età dei ballerini: ci sono bimbi, adolescenti e qualche giovane ventenne. Poi la festa finisce e mentre il palco si svuota e nella piazza si muovono veloci coloro che devono smontare panche e attrezzature, richiamati dalla musica che ancora risuona ci lanciamo verso lo spazio dove prima sedevano gli spettatori, e balliamo ognuno a suo modo. Purtroppo le danze durano poco perché la musica finisce presto. Pazienza, ci si ferma a scambiare qualche chiacchiera con le signore del posto che sono ben contente di raccontarci della manifestazione che proseguirà l’indomani, ma anche curiose e ben disposte ad ascoltare racconti di viaggi, moto e strada.

Poi però il sabato cede il posto alla domenica, e tra la una e le due della notte facciamo ritorno all’albergo, non prima però di aver fatto un altro paio di giri di birra nel bar a fianco. Qualcuno quella birra se la ricorderà a lungo: non perché abbia avuto chissà quale ripercussione sulla sua già minata sobrietà, ma per via del pessimo odore del bicchiere che la conteneva.

Prima di mettersi in branda c’è ancora il tempo di fare qualche scherzo e di invadere le camere altrui occupando il primo letto libero, dimenticandosi però le chiavi della propria porta e rischiando, così, di restare chiusi fuori e di dover chiedere veramente ospitalità ai vicini. Ormai sono le due, ed è saggio mettersi a dormire perché tra cinque ore ci si deve svegliare per fare colazione, sistemare i bagagli e giungere puntuali al battello. Sarà per il tepore di fine estate, o perché si dorme in mansarda, magari per il vino o la grappa o la birra, o forse è colpa dell’anguilla. Ma fa caldo e si dorme senza pigiama e con le finestre aperte.

Stai ancora sognando quando un suono alto e penetrante ti risuona nella scatola cranica: è la sveglia che ti dice che è ora di rimettersi in piedi. Di già? Doccia per riprendersi, il tempo di buttare i panni in valigia e vestirsi, e poi giù a fare colazione attingendo dal ricco buffet. Le facce sono un po’ spente, e gli occhi sembrano quelli della povera anguilla finita sulla piastra. C’è chi zoppica perché la notte prima ha lasciato la caviglia su uno scalino. Nonostante tutto riusciamo a raggiungere le moto e a superare i cartelli che segnano il confine del Parco del Delta del Po. Il ritorno a casa ci riporta sull’autostrada del giorno prima, sempre con l’occhio del Tutor che ti guarda sospettoso, sempre con il Frecciarossa che ti fa una pernacchia sverniciandoti a tutta velocità. E’ un viaggio verso casa e verso l’autunno: le prime ore della sera sono molto più fresche di ieri, e oltrepassata l’Emilia Romagna e il Po troviamo la pioggia che si fermerà a Milano per poi riprendere vigorosa nel varesotto.

E’ buio. L’acqua sgocciola dalla tuta antipioggia nera. Un po’ di nebbia si alza dalla campagna. Ti torna alla mente il racconto dei pescatori di frodo vestititi di nero nelle loro uscite notturne, invisibili nella nebbia. E per una frazione di secondo togli lo sguardo dalla strada e butti l’occhio sotto di te: giusto per rassicurarti di essere sulla tua moto, e non su una barca ricoperta di pece.

 

Qui le immagini del weekend.