Ed eccoci qua: scesi giù dai monti, in fuga dalle valli, lungo la strada che ci riporta alla quotidianità fatta di lavoro, di caldo opprimente, e di cemento rovente, in un paesaggio che stride con quanto visto nella quattro-giorni valtellinese: canicola dove prima c’era calura, afa al posto della brezza, condomini al posto dei monti, molto più bassi e molto più brutti da vedere. E silenzio nella notte, dove prima c’era l’inferno. Due anime quelle del raduno internazionale dello Stelvio: eccitante, ludica, avventurosa la prima; snervante e fracassona oltre misura la seconda.

Prima di proseguire devo ringraziare (in ordine alfabetico): Carmen, Claudio, Daniela, Flavio, Giovanni, Luisa, Marco e Roberto, del nostro Moto Club; Daniela, Davide, Maurizio e Pietro, nuovi amici con cui abbiamo trascorso un paio di giornate da accampati. Un grazie poi di cuore a Marco e Carmen che mi hanno legato alla loro ruota posteriore, portandomi pazientemente a pascolare in posti mozzafiato, sempre pronti ad aspettarmi qualche centinaio di metri più avanti. Siete stati un’ottima compagnia e una guida inesauribile.

L’avventura inizia giovedì 3 luglio. Parto poco dopo pranzo, verso le 14.00. La giornata è assolata e rovente. La moto è carica a mo’ di mulo: borsa sul serbatoio, borse laterali che per il caldo sono più flosce che mai, e sopra di esse la sacca, di traverso, con tutta la trousse del buon campeggiatore. E’ la prima volta che mi dirigo in Valtellina, ma la strada è molto semplice: decido di passare per Cantù, per Erba, Pusiano e poi infilo la superstrada a Lecco mentre sopra di me l’azzurro del cielo è stato colorato di nero da antipatici ammassi nuvolosi. Pochi chilometri e via che piove, obbligandomi a fermarmi sotto al primo il ponte per infilare la tuta antipioggia. Le nuvole confermano la loro antipatia esaurendo la pioggia in pochi minuti, ma non ho voglia di fermarmi un’altra volta. La nuova sosta è rimandata di poco perché a Colico il ritrovato sole è davvero caldo. Trovo altri bikers fermi ad un bar: ne approfitto per spogliarmi e raffreddarmi con un buon gelato. Poi via: la tappa successiva è il campeggio di Sondalo, nella tana del lupo.

Lì mi aspettano già dal primo pomeriggio Marco e Carmen; hanno già delimitato un’ampia zona attorno alla loro tenda arancione, usando del nastro segnaletico alla C.S.I. Non si perde tempo in convenevoli e accetto la loro offerta d’aiuto per montare la tenda, gentilmente fornita da Marco Mensi. Come già accaduto poche settimane prima al raduno dei Cilindroni, finito di piantare l’ultimo picchetto parte il ticchettio della pioggia sul telo della tenda. Come volevasi dimostrare, Fantozzi e la sua nuvola da impiegato regnano incontrastati. Proprio mentre il gocciolio si trasforma in pioggia insistente un titolare del campeggio ci consegna il badge per il transito. Poi si sta un po’ in tenda ad aspettare che il cielo si rassereni, trascinandoci fuori giusto per l’ora di cena.

Dopo qualche centinaio di metri di passeggiata arriviamo in un ristorante-pizzeria che Marco e Carmen conoscono bene. La pizza è davvero ottima, e il locale è semplice ma accogliente.

Sono già le nove della sera: è ora di tornare al per il concerto gratuito di Davide Van De Sfross, prova e prodromo della nuova tournee promozionale per il loro ultimo disco "Pica". L’uomo del lago snocciola tutti i nuovi pezzi ma anche tanti titoli dei dischi precedenti: trionfa la tradizione del dialetto, stride la chitarra blues e galoppa la ritmica ska.

Giungiamo alle tende per il meritato riposo, sicuri che la fresca notte ci darà sollievo e il sonno ci ristorerà: attorno ci sono pochissime tende, quindi il buon senso vuole che non ci saranno noie. Ma si tratta di una pia illusione! Per tutta la notte due Piaggio Si, guidati da due Cervelli No, entrano ed escono dal campeggio sputando fumo oleoso dalle loro marmitte bucate a mo’ di mitragliatrice. Il rumore è molto fastidioso, e soprattutto continuo, ma vanno avanti fino alle quattro del mattino. Steso nella tenda, mentre cerco di liberarla da una colonia di striscianti animaletti, mi chiedo se non sto dormendo per l’effetto claustrofobia o per il rumore. Mi spaventa un po’ pensare che nei giorni successivi arriverà l’orda barbarica e il rumore crescerà a dismisura. Pazienza: per una notte si può anche non dormire no?

 

Venerdì 4 luglio

Finalmente è arrivato il mattino: ho vinto la mia battaglia contro le forbici, e non mi sembra che la notte insonne mi abbia sfiancato più di tanto. L’euforia dell’affrontare una bella galoppata con gli amici mi dà la giusta energia per raggiungere le docce e preparami.

Con Marco e Carmen ci dirigiamo in un bar a fare colazione e poi partiamo gustando l’aria fresca che schiaffeggia i volti. Mi affido totalmente a loro: non conosco nulla di questi posti, mentre Marco vi scorazza da un trentennio. E’ davvero appagante essere in coda ad altre moto: vederle piegare tra i tornanti e sfilare poi in accelerazione fa sgranare gli occhi. Ci dirigiamo verso il Passo Gavia, a 2.651 metri di altitudine. Oltre i 1.500 metri l’aria diventa freddina. Arrivati al Passo ci infiliamo la felpa perché la colazione inizia a ristagnare nello stomaco intirizzito.

Il paesaggio è veramente eccezionale: neve e ghiaccio fanno da cornice alla strada, e i tornanti appena percorsi, visti dall’alto, sono contorti come una serpente arrotolato. Tanti motociclisti, la maggior parte con le Bmw, scattano foto ad ogni angolo. La foto al monumento alla Grande Guerra è però di rito, così come una bevanda calda al Rifugio per sistemare lo stomaco e prepararsi alla discesa.

Scendendo la strada cambia aspetto: i tornanti sono più stretti e ripidi, e lo strapiombo a lato, non contenuto dal parapetto, incute un certo timore a chi come me non sa cosa aspettarsi oltre la prossima curva… La tensione mi limita un po’ ma trovo poi sfogo nell’ultimo tratto di discesa verso valle, dove la strada torna ampia e più intuitiva: si apre il gas e si riprende a ondeggiare a destra e poi a sinistra e poi di nuovo a destra.

Ridi e scherza, piega e frena, si è fatto mezzogiorno: è ora di fare il pieno di carboidrati e ci fermiamo in un bar per uno spuntino molto semplice; giusto un panino e una coca all’aria aperta che nel frattempo si è riscaldata grazie al sole che splende alto. Ci rilassiamo un pochino ma senza esagerare per evitare che i postumi della veglia notturna tolgano la voglia di rimettersi in sella.

La tappa successiva è il Passo Mortirolo, a 1.851 metri sul livello del mare. Qui non ci fermiamo più di tanto: il paesaggio è più "normale" rispetto a quanto visto sul Gavia.

Il ritorno è molto tranquillo; le moto non si sono mai lamentate, e facciamo ritorno al campeggio verso le 17.00. Qui troviamo gli amici di Marco che nel frattempo hanno raggiunto Sondalo. Attorno alle nostre due tende ne sono sbucate altre tre da mattina a sera, e nella zona delimitata si contano sei moto. Piccolo problema: sollevando lo sguardo e guardando attorno noto che le tende sono cresciute come funghi ovunque, a dismisura, e le centinaia di moto arrivate sono simili a minacciosi e ronfanti mostri che corrono ovunque vi sia un pezzo di strada calpestabile, ruggendo, crepitando, fumando dalle ruote piuttosto che dallo scarico. Chi le cavalca sfreccia senza casco su una ruota, forse perché l’asfalto è rovente un po’ come quando cammini a piedi nudi sulla spiaggia. La polizia, i vigili, le forze dell’ordine sono lì a braccia incrociate, sornioni, e non sembra che abbiano voglia di intervenire: ecco quindi che il lato trasgressivo dei biker, in assenza di controlli, è libero di sfogarsi. In mezzo a quella baraonda mi chiedo: ma la trasgressione non dovrebbe avere in sé l’eccitazione per la possibilità di essere scoperti, puniti? Davanti al non-intervento delle forze dell’ordine le evoluzioni normalmente fatte di nascosto diventano invece regola, moda. Ma allora che trasgressione è? Se continua così sarà dura dormire anche questa notte.

Dopo la tanto desiderata doccia è il momento della cena: occupiamo un tavolo appena fuori al tendone principale e utilizziamo il buono datoci dall’organizzazione; la scelta è tra un piatto di pizzoccheri o la salamella con la polenta. Poi c’è comunque il menù ma tutto il convivio conviene che i prezzi sono un po’ fuori luogo, alti sia per il tipo di piatto che per l’evento in sé. Diamine, siamo a un raduno di motociclisti, perché lucrare sulla birra o sulla polenta!?!?

Dopo la cena ci dirigiamo tutti verso il Bar della Posta per un cicchetto in allegra compagnia e per il rifornimento di sigarette. Da qui torniamo al tendone perché è serata di concerti: cover-band dei Metallica da una parte, un complesso pop-rock dall’altra. I due tendoni sono ben popolati, ma è all’esterno che si capisce quanto sia cresciuto il numero di presenze: si cammina a fatica perché lo spazio per farlo è ridotto ai minimi termini, e si parla peggio perché i cilindri sputano decibel e fiamme dagli scarichi. Immaginavo di raggiungere un posto ameno dove di notte avrebbero cantato i grilli, ma a cantare sono solo i motori in agonia.

E la notte passa davanti ai miei occhi aperti, accucciato in una tenda, in compagnia dei soliti insetti. I tappi nelle orecchie sono una precauzione inutile, servirebbero le cuffie anti-infortunistica. Anche questa volta non si dorme, non si dorme, non si dorme. Si tira mattina, aspettando il momento della prossima doccia, nella convinzione che la prossima notte sarà quella giusta, che ci si addormenterà per la stanchezza accumulata nei due giorni di veglia. Sarà poi così?

 

Sabato 5 luglio

Sono le sette, forse le otto. Il senso del tempo si è perso assieme al riposo, ma fortunatamente anche i decibel si sono ritirati assieme all’oscurità; il sole che rende la tenda traslucida ha cancellato la voglia di fare baldoria ai più, e a parte qualche motore che ancora grida in lontananza il mattino dona un po’ di tranquillità.

Apro la tenda e cerco di aprire anche gli occhi, che restano socchiusi per via del gonfiore: Marco e Carmen sono già fuori dalla tende, vestiti, con tanto di sigaretta tra le dita, e non sembrano particolarmente sofferenti; pensavo di non avere fisico: evidentemente avevo ragione. In un impeto di orgoglio esco dalla mia tana dopo aver recuperato l’accappatoio ed il docciaschiuma e, investito dalla frescura scalo la collinetta e mi abbandono alla doccia. I bagni iniziano a mostrare segni di cedimento: l’alta affluenza li ha già resi sufficientemente sporchi e mi dico che è meglio fare una doppia doccia perché dalla sera diverranno anche maleodoranti. L’acqua è ora calda, ora fredda, e questo alternarsi mi dà un po’ di vigore: il primo effetto è un morso allo stomaco; ho fame, serve una colazione abbondante anche perché con Marco oggi si va a ritirare la medaglia sullo Stelvio e poi non so dove. Torno verso la tenda ansioso di indossare i capi tecnici ed emozionato per l’approssimarsi del momento in cui camminerò lassù per la prima volta, dove decine di migliaia di motociclisti hanno posato il loro stivale prima di me. Anche gli altri si stanno svegliando. Nel giro di mezzoretta si accendono i motori e si va al solito bar per la colazione: due brioche sono il minimo per avere un po’ di autonomia per la salita.

Il cervello inizia a capire dove sono il sotto e il sopra, la destra e la sinistra; possiamo quindi muoverci verso la prima meta, o meglio verso il primo pit-stop: il benzinaio più vicino; un simpaticone direi, visto che con la fila di moto assetate di C6H6 sventola un bel € 1,565/L sul tabellone dei prezzi. Anche se non ho notizie dal mondo da tre giorni, deduco che il petrolio ha continuato la sua rincorsa verso l’alto…prima o poi tornerà a scendere, dicono gli economisti. Nel frattempo sta scendendo il livello del mio conto corrente.

La strada che porta verso lo Stelvio è per i primi chilometri la stessa che ho già percorso per ben due volte in due giorni, eppure alla prima "esse" stretta infilata quasi a passo d’uomo sbaglio traiettoria e vedo il muro alla mia destra sfiorarmi l’orecchio. Decido che è il momento di svegliarmi: tra poco si salirà in alto e non penso proprio che ci saranno muri o barriere a separarmi dal vuoto dei precipizi che circondano i tornanti. Meglio aprire il casco e farsi stuzzicare dall’aria per acquisire un po’ di tono. Ora si fa sul serio: tornante dopo tornante le gomme si scaldano, assecondano la giusta traiettoria, e la sicurezza che trasmettono mi permette di gustare il paesaggio che si apre davanti ai miei occhi. Il verde sfuma mentre si raggiungono quote sempre più alte. Mille metri, poi duemila metri, e l’aria rarefatta viene riempita dal fragore delle moto che ti sverniciano a tutta birra prima di una staccata da paura. La mattinata incede e in molti si sono svegliati e sono saliti su, allo Stelvio; guardando negli specchietti si vedono orde di barbari su due ruote che irrompono da ogni dove incutendo un po’ di timore.

Marco e Carmen sono più avanti e io ogni tanto mi fermo a fare uno scatto o due con la mia Nikon; in queste pause mi diverto a guardare verso valle, dove lungo la strada adagiata sul fianco della montagna si vedono dieci, cento, mille puntini colorati che scalano l’Adamello a colpi di gas. Non c’è che dire: è proprio uno spettacolo entusiasmante vedere tante persone che condividono la stessa passione. Alla fine poi i tornanti finiscono e la strada si apre su uno spiazzo occupato da un numero impronunciabile di moto. Deduco che siamo arrivati.

A questa altitudine l’ossigeno è un bene prezioso, e ci vuole un congruo numero di minuti prima che l’organismo si abitui alla leggerezza dell’aria. In quei momenti l’atmosfera è ancora più ricca di sensazioni amplificate dalla vertigine; i colori tendono a sfumare, i rumori sembrano più attutiti, e i passi verso il rifugio si fanno più pesanti.

Arrivati poi al ristoro, e ritirata la medaglia-ricordo tutto torna nella norma e si riesce a parlare, a confrontarsi, a discutere sui pazzi alla guida e sulla bellezza del panorama, a ripensare alle tante curve percorse al parossismo in anni e anni di motociclismo. Un te, un caffè, per i più arditi e incoscienti una birra, e la cordialità assume la forma di un gruppo di motociclisti.

Quando è l’ora di tornare, Marco riprende idealmente per mano me e la mia Suzy, e decide di farmi assaporare altre emozioni: scendiamo, ma questa volta dal versante Nord che sconfina in territorio svizzero; la strada è meno godibile da chi, come me, affronta insicuro lo sterrato di un paio di chilometri che si incontra lungo i tornanti che segnano il passaggio dalla zona meno verde a quella più ricca di vegetazione; ma l’adrenalina, la tensione, danno più carattere alla guida.

Scesi incolumi dalla Montagna con la M maiuscola, proseguiamo nel verdissimo e placido Parco Nazionale Svizzero, dove il percorso lambisce prati ordinati di varie tonalità del verde, filari di alberi rigogliosi, salendo e scendendo lungo leggeri pendii. Il ronzio della moto sotto coppia dà il suo contributo a rendere tutto bucolico, ameno. Ma fattasi la una del pomeriggio lo stomaco ci ricorda che oltre alla benzina serve un altro tipo di carburante: il cibo.

Ci fermiamo quindi in una trattoria e divoriamo un piatto freddo a base di pomodori, insalata, wusterll e salsa di formaggio. Per inciso, la cameriera di origini slovacche coi suoi capelli lunghi e neri, gli occhi verdi, la carnagione candida, la freschezza di una ventenne, finisce per mettermi ko: in un secondo decido di chiederle di mollare quel posto isolato, di salire in sella, di scappare con me nel Bel Paese, e di passare il resto della vita insieme; nel secondo successivo già odo lo sfottio di Marco e Carmen che mi danno del ragazzino innamorato. Ah, com’eri bella, ragazza sconosciuta!

Abbandonato il romanticismo, risaliamo in sella e partiamo alla volta di Livigno; prima però c’è la galleria del Gallo che, scura, stretta, fredda e ventosa per colpa dei potenti aeratori, sfocia con un bagliore improvviso davanti al lago del Gallo. Che posto! Che spettacolo! Il dito scatta furioso a destra a manca nel tentativo di catturarne la luce e i colori in una foto, ma il lago non si concede, proprio come la cameriera slovacca. Anche questa volta al posto del trofeo si porta a casa soltanto il ricordo.

Livigno viene solo sfiorata: l’idea dello shopping non convince nessuno di noi tre, per cui si decide di fare rotta verso Sondalo. Il viaggio è ancora lungo, le curve la faranno ancora da padrona, il serbatoio si prosciugherà per l’ennesima volta.

Arrivati a destinazione, in quel campeggio che è ormai diventato la nostra nuova casa, si ricerca nell’ondeggiare del fumo della sigaretta la sinuosità di un mondo visto da dietro una visiera come nello schermo di un televisore, ma reso però vivo dai suoni e dagli odori della natura.

Domani si parte, rimane una cena, una serata con qualche concerto, qualche chiacchiera con i compagni d’avventura vecchi e nuovi, un boccale di birra, e l’ultima notte insonne. Domani si ritorna ognuno alla propria vita. Domani avrò tantissime cose da raccontare agli amici, e magari da scrivere in un diario, su Internet. Domani però, perché la stanchezza ormai annebbia la vista e quasi non permette di gustare lo spettacolo delle mille stelle creato dai fari delle motociclette che, dopo le 22.00, discendono dallo Stelvio nella famosa “Parata delle luci”.

 

Domenica 6 Luglio

Nonostante disperassi di riuscire ad addormentarmi anche questa volta, il mattino del giorno di festa mi coglie di sorpresa: ho dormito senza nemmeno accorgermi del momento in cui mi sono abbandonato all’oblio. La tortura delle notti precedenti ha esaurito la riserva di energie nervose e il cervello è caduto in un black-out totale.

Mestamente mi adeguo all’attività che occupa la gran parte del vicinato, smontando la tenda e ritirando nei bagagli tutto quanto ha resistito a questi giorni di guerra. Purtroppo arriva il momento dei saluti, quando prometti agli amici di ritrovarsi presto, sapendo che forse non sarà così. Con Marco e Carmen andiamo a fare colazione insieme per l’ultima volta, e poi diamo il via al rientro.

Dopo pochi chilometri giungiamo a Sondrio dove siamo costretti a fermarci ad un distributore non per imbarcare benzina, ma per indossare l’antipioggia perché sulla visiera compaiono un po’ di puntini liquidi e, verso ovest, il cielo davanti a noi è indiscutibilmente temporalesco. Facciamo giusto in tempo a ripartire e subito veniamo investiti dal diluvio universale. Marciando a trenta chilometri orari l’avantreno innalza una colonna d’acqua che sale fino a ricoprire il serbatoio, tanto la strada è allagata. Il manubrio diventa leggero e le sbacchettate suggeriscono di togliere mano e piede dai freni e affidarsi solo al freno motore per rallentare in prossimità degli incroci. La pioggia continua incessante fino all’altezza di Mandello del Lario.

Finalmente dopo tanti chilometri bagnati ci fermiamo per togliere la tuta. I miei due compagni di viaggio decidono di concludere la loro avventura con un gelato al lago di Pusiano; io invece sono ridotto ad un cencio zuppo: la tuta non ha retto e gli indumenti sono madidi; inoltre partendo non con gli stivali in goretex, ma con un paio di scarponcini di cuoio, ai piedi sembra di avere le calzature di cartone dei reduci della guerra di Russia, sfatte e disciolte dall’acqua. E’ il momento di salutare chi mi ha fatto da tutor in questi giorni che resteranno a lungo impressi negli occhi e nel cuore.

Solitario, faccio rotta verso Como, Varese e finalmente alle 17.00 chiudo la porta di casa dietro le mie spalle. La stanchezza, il sonno, la fame, il ritorno tra le mura di mattoni che ti soffocano dopo aver vissuto in spazi che estesi fino all’infinito non riescono ad intaccare la felicità che ancora fa brillare i miei occhi infossati dentro le loro occhiaie.

 

Qui le immagini del motoraduno.